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190 | EMILIO SALGARI |
cinquanta passi, e nonostante il movimento del cavallo, era difficile che mancasse il bersaglio.
— To’! — esclamò Sandy-Hook. — Se invece di dedicarsi al boxe si esercitasse colle Colt, diventerebbe il campione inglese.
Ma già ha il cervello malato quel pover uomo. —
I lupi continuavano a correre urlando sempre più forte.
Ma i loro sforzi non riuscivano. Coll’esser troppo pasciuti avevano perduto gran parte della loro agilità, e forse non era più la fame che li animava.
Le macchie si succedevano alle macchie sempre più ampie formate di abeti, di pini neri del Canadà e di aceri zuccherini.
I sei cavalieri per far perder tempo ai loro avversari, invece di attraversarle, le costeggiavano, scomparendo, per un momento in mezzo alle piante.
Quella corsa durava da una buona mezz’ora, quando i lupi cominciarono a rimanere indietro.
Una scarica di rifles li decise a rinunciare alla caccia della selvaggina umana.
— Di che cosa vi lamentate voi, dunque, Sandy-Hook? — chiese l’indian-agent. — Come vedete, non sempre i lupi sono pericolosi, anche se sono in buon numero.
— Sì, quando si hanno dei cavalli forti e sicuri come i nostri e quando quelle bestie hanno troppo mangiato. Io sono sicuro che se fossero state digiune, ci avrebbero raggiunti. Che ne dite voi, mister John!
— Forse avete ragione..,. Ci accampiamo?
— La serata è stata pesante — rispose il bandito — e mi pare di avere il diritto di riposarmi un poco.
Anche gl’indiani dormiranno in qualche luogo, sicuri di non essere seguiti. —
Una gran macchia si offriva dinanzi a loro e molto folta, essendo per la maggior parte composta di piante di romice.
I sei cavalieri vi si cacciarono dentro, legarono i mustani, dopo aver dato loro un po’ d’erba scavata sotto la neve con non poca fatica, e prepararono l’accampamento senza accendere il fuoco.
Cinque minuti dopo, tutti, fuorchè l’indian-agent, che montava da solo il primo quarto di guardia, russavano come ghiri.