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166 EMILIO SALGARI

Legarono i mustani, stesero sulla neve le pelli di bisonte, e dopo una parca cena si avvolsero nelle loro grosse coperte di lana colla testa appoggiata alle selle.

Ma Harry doveva montare il primo quarto e si guardò bene dal lasciarsi vincere dal sonno, quantunque il fuoco per prudenza non fosse stato acceso.

I lupi parevano diavoli scatenati. Grossi branchi, che venivano da varie direzioni, passavano correndo sfrenatamente sulla gelida pianura.

Ululavano così forte, da impedire agli accampati di poter chiudere gli occhi un solo momento.

Già Sandy-Hook aveva rinunciato al suo quarto di riposo ed aveva accesa la pipa.

Solamente l’inglese russava come un ghiro, sognando forse gli occhi feroci di Minehaha.

Ed i lupi passavano intanto sempre, a torme numerosissime, con uno slancio spaventevole. Pareva che fossero spinti dall’uragano.

Nella notte serena e limpida, illuminata dalla luna sorta in mezzo ad un superbo alone, i loro ululati feroci risonavano lugubremente.

Si slanciavano tutti alla gran cena.

Mister Harry, — chiese ad un certo momento Sandy-Hook, ricaricando la pipa. — Quanti ne sono passati!

— Chi lo potrebbe dire? Cinquecento, e forse più di mille — rispose lo scorridore.

— Bell’affare se fossimo rimasti nel campo indiano! Non ci sarebbero rimaste nemmeno le nostre scarpe.

— Lo credo.

— Domani non rimarranno nemmeno le tende. Che bell’occasione se Minehaha e Nube Rossa tornassero!

— E la capigliatura della piccola giaguara dove andrebbe mai a finire?

— È vero, mister Harry. Anche quella andrebbe in bocca a quegli ingordi predoni a quattro gambe.

Non si crederebbe, ma pure è vero che divorano carne, vesti e cuoio insieme senza guastarsi i denti.

— È proprio così, Sandy. —

In quel momento una torma di lupi, d’una cinquantina all’incirca, irruppe nella macchia e arrestò un momento dinanzi agli accampati, urlando ferocemente.

Harry e Sandy-Hook, temendo un attacco, balzarono in piedi e scaricarono i loro rifles.