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Capitolo XIV.


La carica degli americani.


Per parecchi minuti nell’ampia tenda regnò un profondo silenzio, rotto solo dal crepitìo delle fiamme e dai grugniti di Nube Rossa, il quale aveva preso un nuovo calumet e lo aveva caricato con moriche fortissima, forse per istordirsi maggiormente.

John era rimasto immobile, appoggiato ad una delle pertiche del wigwam. Conservava una calma meravigliosa, che non poteva sfuggire agli sguardi acuti del vecchio sakem, buon conoscitore d’uomini valorosi.

Ad un tratto Minehaha scattò in piedi come una furia, e chiese con accento feroce all’indian-agent:

— Dov’è la capigliatura di mia madre?

— La porto in testa io — rispose John.

— Me l’avevano detto.

— E la mia pende sempre nel centro dello scudo di guerra?

— Sì.

— Vorrei vederla, dopo tanti anni che mi è stata strappata.

— Quando tu mi avrai data la capigliatura di mia madre. —

L’indian-agent, che già sapeva di non potere in alcun modo difenderla, si levò l’ampio sombrero messicano e si tolse la parrucca formata di lunghissimi capelli neri che avevano dei riflessi metallici, dicendo:

— Eccola! Ed ora guarda l’opera compiuta dal tuo coltello sul mio povero cranio.

Guarda, guarda! Lo voglio! —

Minehaha gettò uno sguardo sulla testa dell’indian-agent, e non seppe frenare un moto d’orrore.

Quel cranio, che aveva subita l’atroce operazione dello scalp, così largamente usato da tutte le pelli-rosse dell’America settentrionale, era orribile a vedersi.