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gandola vagamente, ma su punti determinati e con determinate circostranze, le quali via via ebbero la potenza di ravvivarle la memoria. Troviamo infatti che a più riprese la Diotallevi venne facendo la sua rivelazione e di più troviamo che essa venne dando al Processante notizia di tali cose, che mentre non poteva ella assolutamente conoscerle, erano perfettamente conosciute dal Processante.

Valga ad esempio quanto la Diotallevi ha deposto a proposito delle cifre, delle quali ne troviamo quattro diversi esemplari, che diconsi usati uno da tal Patrizi, l’altro dal Margutti, il terzo dal Gulmanelli e dal DeAngelis, il quarto dal Venanzi. È quasi superfluo il notare quanto sia verosimile che la Diotallevi potesse, non diremo conoscere delle cifre che si dicono di uso particolare delle persone indicate, ma che essa potesse con tanta precisione ricordarsene senza alcun aiuto e stando racchiusa in carcere. Delle prime tre non può dirsi se siano una invenzione pura e pretta della Diotallevi, ovvero se il Processante ne avesse trovato uno schema o fra le carte rinvenute presso il Venanzi o presso altri. Nè da quella parte del processo, che il Comitato possiede, nè dalla Relazione Fiscale di questo v’è argomento a poterne giudicare. Ma relativamente alla cifra che dicesi usata dal Venanzi e della quale a pagina 70 della Relazione Fiscale si afferma essere stato rinvenuto presso il Venanzi un prospetto che si dà alla seguente pag. 71, e che confronta pienamente col prospetto che ne ha dato la Diotallevi; pel Comitato è un fatto incontrastabile, che questo prospetto la Diotallevi non ha potuto darlo se non in seguito della comunicazione che il Processante deve averle fatto di quello che presso il Venanzi fu rinvenuto. La base di questa cifra sono i noti versi dell’Alfieri:

«Ch’io di Roma son figlio
E a Porzia sposo, e ch’io Bruto m’appello.»

Il Venanzi ne’ suoi costituti ha detto che le carte che furono presso di lui rinvenute non erano di sua proprietà, ma appartenevano ad un suo amico che avevalo