E quel ch’armato, sol, difese un monte,
Onde poi fu sospinto; e quel che solo
Contra tutta Toscana tenne un ponte;
E quel che in mezzo del nemico stuolo
Mosse la mano indarno, e poscia l’arse,
Sì seco irato che non sentì il duolo;
E chi ’n mar prima vincitor apparse
Contra’ Cartaginesi, e chi lor navi
Fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse.
Appio conobbi agli occhi, e’ suoi, che gravi
Furon sempre e molesti a l’umil plebe.
Poi vidi un grande con atti soavi,
E se non che ’l suo lume a lo stremo ebe,
Forse era il primo, e certo fu fra noi
Qual Bacco, Alcid’e Epaminonda a Tebe;
Ma ’l peggio è viver troppo. E vidi poi
Quel che da l’esser suo destro e leggero
Ebbe nome, e fu ’l fior degli anni suoi;
E quanto in arme fu crudo e severo,
Tanto quei che ’l seguia, Corvo, benigno,
Non so se miglior duce o cavaliero.
Poi venia que’ che livido maligno
Tumor di sangue, bene oprando, oppresse,
Nobil Volumnio e d’alta laude digno;
Cosso e Filon, Rutilio, e da le spesse
Luci in disparte tre soli ir vedeva,
Rotti i membri e smagliate l’arme e fesse:
Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva,
Que’ tre folgori e tre scogli di guerra,
Ma l’un rio successor di fama leva;
Mario poi, che Jugurta e’ Cimbri atterra
E ’l tedesco furore, e Fulvio Flacco,
Ch’a l’ingrati troncar a bel studio erra,
Et il più nobil Fulvio, e solo un Gracco
Di quel gran nido garrulo inquïeto
Che fe’ il popol roman più volte stracco,