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306 DEL TRIONFO

E quel ch’armato, sol, difese un monte,
     Onde poi fu sospinto; e quel che solo
     Contra tutta Toscana tenne un ponte;
E quel che in mezzo del nemico stuolo
     Mosse la mano indarno, e poscia l’arse,
     Sì seco irato che non sentì il duolo;
E chi ’n mar prima vincitor apparse
     Contra’ Cartaginesi, e chi lor navi
     Fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse.
Appio conobbi agli occhi, e’ suoi, che gravi
     Furon sempre e molesti a l’umil plebe.
     Poi vidi un grande con atti soavi,
E se non che ’l suo lume a lo stremo ebe,
     Forse era il primo, e certo fu fra noi
     Qual Bacco, Alcid’e Epaminonda a Tebe;
Ma ’l peggio è viver troppo. E vidi poi
     Quel che da l’esser suo destro e leggero
     Ebbe nome, e fu ’l fior degli anni suoi;
E quanto in arme fu crudo e severo,
     Tanto quei che ’l seguia, Corvo, benigno,
     Non so se miglior duce o cavaliero.
Poi venia que’ che livido maligno
     Tumor di sangue, bene oprando, oppresse,
     Nobil Volumnio e d’alta laude digno;
Cosso e Filon, Rutilio, e da le spesse
     Luci in disparte tre soli ir vedeva,
     Rotti i membri e smagliate l’arme e fesse:
Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva,
     Que’ tre folgori e tre scogli di guerra,
     Ma l’un rio successor di fama leva;
Mario poi, che Jugurta e’ Cimbri atterra
     E ’l tedesco furore, e Fulvio Flacco,
     Ch’a l’ingrati troncar a bel studio erra,
Et il più nobil Fulvio, e solo un Gracco
     Di quel gran nido garrulo inquïeto
     Che fe’ il popol roman più volte stracco,