Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo
Colui che col consiglio e co la mano
A tutta Italia giunse al maggior uopo:
Di Claudio dico, che notturno e piano,
Come il Metauro vide, a purgar venne
Di ria semenza il buon campo romano.
Egli ebbe occhi a vedere, a volar penne;
Et un gran vecchio il secondava appresso,
Che con arte Anibàle a bada tenne.
Duo altri Fabii e duo Caton con esso,
Duo Pauli, duo Bruti e duo Marcelli,
Un Regol ch’amò Roma e non se stesso,
Un Curio ed un Fabrizio, assai più belli
Con la lor povertà che Mida o Crasso
Con l’oro onde a virtù furon rebelli;
Cincinnato e Serran, che solo un passo
Senza costor non vanno, e ’l gran Camillo
Di viver prima che di ben far lasso,
Perch’a sì alto grado il ciel sortillo
Che sua virtute chiara il ricondusse
Onde altrui cieca rabbia dipartillo.
Poi quel Torquato che ’l figliuol percusse,
E viver orbo per amor sofferse
De la milizia perché orba non fusse;
L’un Decio e l’altro, che col petto aperse
Le schiere de’ nemici: o fiero voto,
Che ’l padre e ’l figlio ad una morte offerse!
Curzio venia con lor, non men devoto,
Che di sé e de l’arme empié lo speco
In mezzo il Foro orribilmente voto;
Mummio, Levino, Attilio; et era seco
Tito Flamminio che con forza vinse,
Ma vie più con pietate, il popol greco.
Eravi quei che ’l re di Siria cinse
D’un magnanimo cerchio, e co la fronte
E co la lingua a sua voglia lo strinse;