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DELLA FAMA CAP I. 305

Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo
     Colui che col consiglio e co la mano
     A tutta Italia giunse al maggior uopo:
Di Claudio dico, che notturno e piano,
     Come il Metauro vide, a purgar venne
     Di ria semenza il buon campo romano.
Egli ebbe occhi a vedere, a volar penne;
     Et un gran vecchio il secondava appresso,
     Che con arte Anibàle a bada tenne.
Duo altri Fabii e duo Caton con esso,
     Duo Pauli, duo Bruti e duo Marcelli,
     Un Regol ch’amò Roma e non se stesso,
Un Curio ed un Fabrizio, assai più belli
     Con la lor povertà che Mida o Crasso
     Con l’oro onde a virtù furon rebelli;
Cincinnato e Serran, che solo un passo
     Senza costor non vanno, e ’l gran Camillo
     Di viver prima che di ben far lasso,
Perch’a sì alto grado il ciel sortillo
     Che sua virtute chiara il ricondusse
     Onde altrui cieca rabbia dipartillo.
Poi quel Torquato che ’l figliuol percusse,
     E viver orbo per amor sofferse
     De la milizia perché orba non fusse;
L’un Decio e l’altro, che col petto aperse
     Le schiere de’ nemici: o fiero voto,
     Che ’l padre e ’l figlio ad una morte offerse!
Curzio venia con lor, non men devoto,
     Che di sé e de l’arme empié lo speco
     In mezzo il Foro orribilmente voto;
Mummio, Levino, Attilio; et era seco
     Tito Flamminio che con forza vinse,
     Ma vie più con pietate, il popol greco.
Eravi quei che ’l re di Siria cinse
     D’un magnanimo cerchio, e co la fronte
     E co la lingua a sua voglia lo strinse;