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292 TRIONFO

Poi vidi, fra le donne pellegrine,
     155Quella che per lo suo diletto e fido
     Sposo, non per Enea, volse ire al fine
(taccia ’l vulgo ignorante); io dico Dido,
     Cui studio d’onestate a morte spinse,
     Non vano amor com’è ’l publico grido.
160Al fin vidi una che si chiuse e strinse
     Sovra Arno per servarsi; e non le valse,
     Ché forza altrui il suo bel penser vinse.
Era ’l trionfo dove l’onde salse
     Percoton Baia, ch’al tepido verno
     165Giuns’e a man destra in terra ferma salse.
Indi, fra monte Barbaro et Averno,
     L’antichissimo albergo di Sibilla
     Lassando, se n’andar dritto a Literno.
In così angusta e solitaria villa
     170Era il grand’uom che d’Affrica s’appella,
     Perché prima col ferro al vivo aprilla.
Qui de l’ostile onor l’alta novella,
     Non scemato cogli occhi, a tutti piacque,
     E la più casta v’era la più bella.
175Né ’l trionfo non suo seguire spiacque
     A lui che, se credenza non è vana,
     Sol per trionfi e per imperi nacque.
Così giugnemmo alla città sovrana,
     Nel tempio pria che dedicò Sulpizia
     180Per spegner ne la mente fiamma insana.
Passammo al tempio poi di Pudicizia,
     Ch’accende in cor gentil oneste voglie,
     Non di gente plebeia ma di patrizia.
Ivi spiegò le glorïose spoglie
     185La bella vincitrice, ivi depose
     Le sue vittorïose e sacre foglie;
E ’l giovene Toscan che non ascose
     Le belle piaghe che ’l fer non sospetto,
     Del comune nemico in guardia pose