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SONETTO CXCVII.
De’ duo i più belli occhi che mai furo,
Mirandol di dolor turbato, e scuro
4Mosse vertù che fe’ ’l mio infermo, e bruno!
Send’io tornato a solver il digiuno
Di veder lei che sola al mondo curo;
Fummi'l ciel', ed Amor men che mai duro;
8Se tutte altre mie grazie insieme aduno:
Che dal destr’occhio, anzi dal destro Sole,
Della mia Donna al mio destr’occhio venne
11Il mal che mi diletta, e non mi dole:
Et pur; com’intelletto avesse, e penne;
Passò: quasi una stella che ’n ciel vole;
14E natura, e pietate il corso tenne.
SONETTO CXCVIII.
Alle gravi tempeste mie diurne,
Fonte se or di lagrime notturne,
4Che ’l dì celate per vergogna porto.
O letticciuol, che requie eri, e conforto
In tanti affanni; di che dogliose urne
Ti bagna Amor con quelle mani eburne
8Solo ver me crudeli a sì gran torto!
Nè pur' il mio secreto, e ’l mio riposo
Fuggo, ma più me stesso, e ’l mio pensero:
11Che seguendol talor levomi a volo.
Il vulgo a me nemico, e odioso
(Chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero;
14Tal paura ho di ritrovarmi solo.