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SONETTO CLXXXV.
Mi riconduce disarmato al campo
Là ’ve sempre son vinto; e s’io ne scampo,
4Meraviglia n’avrò, s’i’ moro, il danno?
Danno non già, ma prò; sì dolci stanno
Nel mio cor le faville, e ’l chiaro lampo
Che l’abbaglia, e lo strugge, e’n ch’io m’avvampo;
8E son già ardendo nel vigesim'anno.
Sento i messi di morte ove apparire
Veggio i begli occhi, e folgorar da lunge:
11Poi, s’avven ch’appressando a me li gire,
Amor con tal dolcezza m’unge, e punge,
Ch’i’ nol so ripensar, non che ridire:
14Che nè ’ngegno, nè lingua al vero aggiunge.
SONETTO CLXXXVI.
Donne, che ragionando ite per via;
Ov'è la vita, ov'è la morte mia?
4Perchè non è con voi, com’ella sole?
Liete siam per memoria di quel Sole;
Dogliose per sua dolce compagnia,
La qual ne toglie invidia, e gelosia;
8Che d’altrui ben, quasi suo mal, si dole.
Chi pon freno a li amanti, o da lor legge?
Nessun'all’alma; al corpo ira, ed sprezza:
11Questo ora in lei, talor si prova in noi.
Ma spesso nella fronte il cor si legge;
Sì vedemmo oscurar l’alta bellezza,
14E tutti rugiadosi li occhi suoi.