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80E del peccato altrui cheggio perdono,
Anzi del mio: che devea torcer li occhi
Dal troppo lume, e di Sirene al suono
Chiuder li orecchi: ed ancor non me ’n pento,
Che di dolce veleno il cor trabocchi.
85Aspett’io pur, che scocchi
L’ultimo colpo chi mi diede il primo:
E fia; s’i’ dritto estimo;
Un modo di pietate occider tosto,
Non essend'ei disposto
90A far altro di me che quel che soglia:
Che ben mor chi morendo esce di doglia.
Canzon mia, fermo in campo
Starò, ch’egli è disnor morir fuggendo.
E me stesso riprendo
95Di tai lamenti; sì dolce è mia sorte,
Pianto, sospiri, e morte.
Servo d’Amor che queste rime leggi,
Ben non ha’l mondo, che ’l mio mal pareggi.


SONETTO CLXXIII.


R
Apido fiume; che d’alpestra vena

     Rodendo intorno, onde ’l tuo nome prendi,
     Notte, e dì meco desioso scendi
     4Ov’Amor me, te sol natura mena;
Vattene innanzi: il tuo corso non frena
     Nè stanchezza, nè sonno: e pria che rendi
     Suo dritto al mar; fiso, ù si mostri, attendi
     8L’erba più verde, e l’aria più serena:
Ivi è quel nostro vivo, e dolce Sole
     Ch’adorna, e ’nfiora la tua riva manca:
     11Forse (o che spero!) il mio tardar le dole.
Baciale ’l piede, o la man bella, e bianca:
     Dille; e ’l baciar sie ’n vece di parole:
     14Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca.