dubitarono d’asserire, che la felicità umana consiste nell’uscire il più ch’è possibile di sè stessi, onde sentire il men ch’è possibile l’insufficienza propria; la qual diffinizione, come che non abbia nulla di nobile e di consolante, non lascia però, considerata la più parte degli uomini, d’esser vera. Vedete là colui, ch’esce di casa sì frettoloso? Non è tanto per cercar gli altri, quanto per fuggir sè medesimo. Ma che felicità infelice è mai quella, che dagli altri dipende? Il solitario all’incontro, che ha un bene non precario, ma suo, o sarà un selvaggio, e una fiera più che altro, o non volgare uomo: perchè come vivere con sè stesso, se non è contento di sè, se ha rimorsi, se non basta a sè medesimo, e non sa nutrirsi, per così dire, della sua propria sostanza? Quindi il pensier d’Aristotile, ch’esser dee o da meno, o da più che uomo; pensiero poeticamente rinforzato dal Milton, ove cantò, che la perfetta solitudine è propria del solo Dio.