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NOTA

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Ho seguito l’edizione di Lipsia del 1880, fuori che in tre o quattro luoghi, per ragione di senso.

Nei metri mi sono accostato quanto meglio ho saputo all’originale, senza licenza nè pedanteria, mirando all’arte principalmente e avendo il dovuto riguardo all’indole della lingua e della prosodia italiana. Così, ho reso il falecio col doppio quinario; il trimetro giambico con l’endecasillabo sdrucciolo; l’ipponatteo con un quinario innestato sopra un settenario: innesto non infelice, mi sembra, che raccomanderei alla benigna osservazione dei gloriosi esploratori di nuovi mondi prosodici, se avesse meno di armonia e non fosse miseramente e più volte deturpato dalla vecchia scabbia della rima. Il gliconio ho imitato con un settenario sdrucciolo nei componimenti brevi; ma chi avrebbe tollerato una filza di centinaja di tali versi? Ho perciò tradotto il canto nuziale in settenarj piani; i quali per altro corrispondono in certo modo ai ferecrazj, ond’è chiusa ogni strofetta latina di tale canto. E con un settenario sdrucciolo e uno piano ho imitato l’accoppiamento del gliconio e del ferecrazio; con due settenarj sdruccioli l’asclepiadeo maggiore.

Quanto ai distici elegiaci, al galliambo e al verso eroico, mi son valuto dell’endecasillabo sciolto o rimato, secondo i casi, e qualche volta del martelliano; e di questo peccato gravissimo sarò, spero, compatito, se non assolto, non avendo ancora i metrologi nuovi trovata la ricetta unica ed infallibile per la manipolazione, non dirò del galliambo, che sarebbe sovrumana scoperta, ma dell’esametro e del pentametro italiano: ricetta, come ognun sa, da cui dipende la salute e la vita della nostra poesia.

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