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fusse quando le conversioni loro fussero state intorno al Sole, secondo il sistema Copernicano; tuttavia ciò esser vero e manifesto al senso, ho dimostrato io, e fattolo con perfetto telescopio toccar con mano a chiunque l’ha voluto vedere. Quanto poi all’ipotesi Copernicana, quando per beneficio di noi cattolici da più sovrana sapienza non fussimo stati tolti d’errore ed illuminata la nostra cecità, non credo che tal grazia e beneficio si fusse potuto ottenere dalle ragioni ed esperienze poste da Ticone. Essendo, dunque, sicuramente falsi li due sistemi, e nullo quello di Ticone, non dovrebbe il Sarsi riprendermi se con Seneca desidero la vera costituzion dell’universo. E ben che la domanda sia grande e da me molto bramata, non però tra ramarichi e lagrime deploro, come scrive il Sarsi, la miseria e calamità di questo secolo, né pur si trova minimo vestigio di tali lamenti in tutta la scrittura del signor Mario; ma il Sarsi, bisognoso d’adombrare e dar appoggio a qualche suo pensiero ch’ei desiderava di spiegare, lo va da se stesso preparando, e somministrandosi quegli attacchi che da altri non gli sono stati porti. E quando pur io deplorassi questo nostro infortunio, io non veggo quanto acconciamente possa dire il Sarsi, indarno essere sparse le mie querele, non avendo io poi modo né facoltà di tor via tal miseria, perché a me pare che appunto per questo avrei causa di querelarmi, ed all’incontro le querimonie allora non ci avrebbon luogo, quando io potessi tor via l’infortunio.



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Ma legga ormai V. S. Illustrissima. "Et quoniam hoc loco atque hoc ad disputationem ingressu confutanda ea mihi sunt quæ minoris ponderis videntur, illud ab homine perhumano, qualem illum omnes norunt, expectassem profecto nunquam, ut, vel ipso Catone severior, lepores quosdam ac sales, apposite a nobis inter dicendum usurpatos, fastidiose adeo aversaretur, ut irrideret potius, ac diceret naturam poëticis non delectari. At ego, proh, quantum ab hac opinione distabam! naturam poëtriam ad hanc usque diem existimavi. Illa certe vix unquam poma fructusque ullos parit, quorum flores, veluti ludibunda, non præmittat. Galilæum vero quis unquam adeo durum existimasset, ut a severioribus negotiis festiva aliqua eorum condimenta longe ableganda censeret? Hoc enim Stoici potius est, quam Academici. Attamen iure is quidem nos arguat, si gravissimas quæstiones iocis ac salibus eludere, potius quam explicare, tentaremus; at vero, rationum inter gravissimarum pondera, lepide aliquando ac salse iocari quis vetat? Vetat enimvero Academicus. Non paremus. Et si illi nostra hæc urbanitas non sapit? Plures habemus, non minus eruditos, quos delectat. Neque enim hic fuit sensus virorum, et genere et doctrina clarissimorum, qui nostræ disputationi interfuere, quibus sapienter omnino factum visum est, ut cometes, triste infaustumque vulgo portentum, placido aliquo verborum lenimento tractaretur, ac prope mitigaretur. Sed hæc levia sunt, inquis. Ita est; ac proinde leviter diluenda."

Da quanto qui è scritto in poche parole sbrigandomi, dico che né il signor Mario né io siamo così austeri, che gli scherzi e le soavità poetiche ci abbiano a far nausea: di che ci sieno testimoni l’altre vaghezze interserite molto leggiadramente dal P. Grassi nella sua scrittura, delle quali il signor Mario non ha pur mosso parola per tassarle; anzi con gran gusto si son letti i natali, la cuna, le abitazioni, i funerali della cometa, e l’essersi accesa per far lume all’abboccamento e cena del Sole e di Mercurio; né pur ci ha dato fastidio che i lumi fussero accesi 20 giorni dopo cena, né meno il sapere che dov’è il Sole, le candele son superflue ed inutili, e ch’egli non cena, ma desina solamente, cioè mangia di giorno, e non di notte, la quale stagione gli è del tutto ignota: tutte queste cose senza veruno scrupolo si sono trapassate, perché,