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avvertimento. 265

a Roma, e «dubitando che forse chi l’ha trascritta, possa inavvertentemente aver mutata qualche parola»1, deliberò di rivolgersi, con lettera del 16 febbraio 1615, a Mons. Piero Dini, che a lui era affezionatissimo, mandargli copia della lettera a D. Benedetto e pregarlo di leggerla al P. Grünberger e farla pervenire altresì al Card. Bellarmino, al quale i Padri Domenicani si erano lasciati intendere di voler far capo. Nella lettera al Dini, Galileo ritornava pure sugli argomenti svolti in quella al Castelli. Il Dini rispondeva il 7 marzo successivo2: che aveva fatto fare molte copie della lettera al Castelli e le aveva poi date al Grünberger, al Bellarmino, a Luca Valerio e a molt’altri; che il Bellarmino «quanto al Copernico, dice ... non poter credere che si sia per proibire; ma il peggio che possa accaderli, quanto a lui crede che potessi essere il mettervi qualche postilla, che la sua dottrina fusse introdotta per salvar l’apparenze, o simil cose, alla guisa di quelli che hanno introdotto gli epicicli, e poi non gli credono»; che le dottrine Copernicane «non pare per adesso che abbino maggior nimico nella Scritttura, che exultavit ut gigas ad currendam viam, con quel che segue»; e che se Galileo avesse messo insieme in certo suo scritto «quelle interpretazioni che vengono ad causam, saranno vedute da S. S. Illustrissima volentieri». Tale risposta del Dini porse occasione ad una replica di Galileo, del 23 marzo, nella quale specialmente insisteva che il Copernico non era «capace di moderazione», ma bisognava o «dannarlo del tutto o lasciarlo nel suo essere», e interpretava conforme la costituzione Copernicana il luogo del Salmo XVIII, al quale alludeva il Dini.

Ma già fin da quando Galileo indirizzava queste due lettere al Prelato romano, egli aveva sui medesimi argomenti composta un’altra e più larga scrittura. Nella prima lettera al Dini egli infatti così si esprimeva: «Sopra questi capi ho distesa una scrittura molto copiosa, ma non l’ho ancora al netto in maniera che ne possa mandar copia a V. S., ma lo farò quanto prima»3; e in quella del 23 marzo soggiungeva: «Ma se sopra una tal resoluzione e’ sia bene attentissimamente considerare, ponderare, esaminare, ciò che egli scrive, io mi sono ingegnato di mostrarlo in una mia scrittura .... e già l’averei inviata a V. S. Reverendissima, se alle mie tante e sì gravi indisposizioni non si fusse ultimamente aggiunto un assalto di dolori colici che m’ha travagliato assai; ma la manderò quanto prima»4. Il Dini, d’altra parte, confortava il Nostro, con le parole più sopra citate, a dar compimento all’opera, assicurandolo che non gli avrebbe potuto «se non giovare assai». Tale scrittura, che però nel maggio del 1615 Galileo non aveva ancora mandato all’amico5, fu la famosa lettera, che, a quanto sembra, egli ebbe

  1. Vedi pag. 291, lin. 19-20, di questo volume.
  2. Mss. Galileiani, Par. I, T. VII, car. 205. Cfr. in questo volume pag. 207 e seg.
  3. Vedi pag. 292, lin. 22-24, di questo volume.
  4. Vedi pag. 299, lin. 33 - pag. 300, lin. 10.
  5. Il 16 maggio 1615 Mons. Dini scriveva a GALILEO: «non sarà se non bene che V. S. dia l'ultima mano a quella scrittura che mi dice aver abbozzata, se la sua sanità glie lo comporta» (Mss. Galileiani, Par. I, T. VII, car. 231).