110Antepon l’oste a i suoi lavoratori,
E da i padron1 fa i sudditi diversi:
Dov’in que’ tempi2 non eran signori,
Conti, marchesi o altri3 bacalari,
Nè anche poveracci o servidori4. 115Tutti quanti eron uomini ordinari,
Ognun si stava ragionevolmente,
Eron tutti5 persone nostre pari,
E ciascun del6 compagno era parente;
Se non era parente, gli era amico7; 120Se non amico, al manco conoscente.
Credi pur ch’ella sta8 com’io ti dico,
Che ’l vestir panni e simil fantasie
Son tutte quante invenzion del Nimico;
Come fu quella dell’artiglierie, 125E delle streghe e dello spiritare,
E degli altri incantesimi e malie.
Un’altra cosa mi fa9 strabiliare,
E sto per dirti quasi ch’io c’impazzo,
Nè so trovar com’ella10 possa stare: 130Ed è, che se qualcun per11 suo sollazzo,
Sendo ’ngegnoso e alto di cervello,
Talor va ignudo, e’ dicon che gli è12 pazzo:
I ragazzi gli gridan: Véllo, véllo;
Chi gli fa pulce secche e chi lo morde, 135Traggongli sassi13 e fannogli il bordello;
Altri lo vuol legar con delle corde,
Come se l’uomo fusse una vitella:
Guarda se le persone son balorde!
E se tu credi che questa sia bella, 140E’ bisogna che ’n cielo, al parer mio14,
Regni qualche pianeto o qualche stella.