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trovatisi sotto i miei ordini. Il giorno sta per finire; saranno qui di ritorno prima che sorga l’aurora. — «Maruf comandò quindi che gli erigessero un padiglione ed una tavola imbandita, il che fu sul momento eseguito. — Lascio alcuni dei miei figli per vegliare alla vostra sicurezza,» disse il genio, «mentre corro ad occuparmi dei vostri ordini.» Appunto in quell’istante tornava il fellah dal villaggio con un piatto di lenti, pane nero ed orzo; ma quando vide la tenda ed i mamelucchi che ne stavano all’ingresso, credette che fosse il re. — Mio Dio!» disse tra sè, «perchè non ho ucciso le mie due galline, facendole cuocere per servirle in tavola al sultano?» Avendolo Maruf veduto, ordinò ai mamelucchi di farlo entrare, e quindi: — Cosa mi porti?» gli chiese. — La vostra cena e quella del vostro cavallo,» rispose il villano. «Ma scusatemi,» proseguì; «se avessi potuto immaginarmi che il sultano si fermasse qui alcuni istanti, avrei fatto cuocere nel burro le mie pollastre. — Io non sono il sultano,» rispose Maruf,» ma un suo parente; per alcune differenze ch’ebbimo insieme, lasciai la corte: ma mi ha mandato questi mamelucchi per annunziarmi che vuol riconciliarsi. Voi vi compiaceste di satollarmi senza conoscermi; ve ne sono assai grato, e benchè non siano che lenti, ne mangerò con piacere. —
«Poi comandò che si portassero i cibi, ed il fellah rimase stupito per la varietà dei colori ed il profumo de’ molti piatti. I rimasugli furono dati ai mamelucchi. Maruf prese un piatto, e riempitolo d’oro, ne fece dono al fellah che, coll’aratro ed i buoi, tornò a casa, convinto che il forastiero fosse un parente del re.
«Maruf passò la notte a bere ed a veder le carole delle giovinette condotte dai geni per divertirlo. Verso la mattina si videro da tutte le parti apparire immensi vortici di polvere. Erano settecento mule cariche di stoffe, guidate dagli schiavi necessari. Il genio rappresentava il capo della carovana, alla cui testa egli era portato in una magnifica lettiga ador-