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passò egli dinanzi alla bottega d’un mercante di focacce di miele, il quale gli domandò la causa del suo cordoglio. — Ah!» rispose il tapino, «quella mia maladetta moglie vuol togliermi la vita. Mi chiese oggi una focaccia di miele, e non ho nemmeno pane da portarle. — Non vi affliggete,» rispose il pasticciere; «ditemi solo quante focacce volete. — Cinque basteranno. — Mi dispiace,» riprese il mercante, «di non avere miele d’ape; non ho se non di quello che si distilla dalle canne di zucchero.— Bene, fatemele,» disse Maruf. Prese il mercante farina, burro, miele di canne da zucchero, e fece una focaccia degna della tavola d’un re. — Avete d’uopo,» disse poi, «di pane e formaggio? eccovi per quattro pezze di pane e per due di formaggio. La focaccia vale dieci pezze: mi darete il denaro quando potrete. — Dio vi rimuneri!» rispose Maruf, e si avviò a casa.

«— Dov’è la focaccia di miele?» gli gridò sua moglie da quanto lungi lo potè scorgere. Eccola,» rispose Maruf; ma vedendo che la focaccia non era fatta con miele d’ape, Fatima si pose a gridare: — Non ti aveva io detto che voleva una focaccia di miele, non di canna da zucchero, ma bensì d’ape? — Eppure devi essermi grata anche d’averti portata questa,» le rispose il marito. A tali parole, Fatima fece un tumulto diabolico; i pugni e gli schiaffi caddero da tutte le parti sul pover’uomo. Torna subito, miserabile,» gridava ella, «a prendermi una focaccia come te la domando.» E le parole venivano accompagnate da nuove percosse. Gli spezzò un dente; gli strappò la barba, e siccome il povero Maruf cercava di difendersi alla meglio, la megera si precipitò su di lui furibonda, e pigliatolo per quel po’ di barba che ancor gli restava, si pose a gridare a tutta possa. Accorsero i vicini, ed udita la cagione dell’alterco, biasimarono altamente la condotta della donna. — Noi mangiamo tutti,» dissero, «focacce di miele di canna da zucchero; dov’è dunque il gran delitto che ha commesso tuo marito?» In somma, fecero il meglio per ristabilire la pace tra i due consorti.