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stoffa di tal colore, poichè non lo conosco. — Conoscete il verde? — No. — Il giallo? — Nemmeno. — Bisognerà dunque scegliere un altro colore. — Non l’avremo neppure. Non siamo in questa città che quaranta tintori, e siccome niuno, fuor di noi, ha il diritto di aprir bottega, poco ne importa dei progressi dell’arte. — Son tintore di professione,» rispose Abukir, «e posso dare ad una pezza di stoffa più di quaranta colori diversi. Se volete, v’insegnerò i segreti del mio mestiere. — Non ne ho bisogno,» disse quello; «noi non riceviamo nella nostra corporazione nessun forastiere, e conserviamo, senza alterazione, i costumi de’ nostri padri. —
«Si rivolse Abukir ai quaranta tintori della città, dappertutto ricevendo la medesima risposta. Si presentò quindi al re della città per indirizzargli una supplica: gli espose come potesse dare ad una pezza di stoffe più di quaranta colori diversi; ma che il corpo dei tintori, i quali non sapevano tingere se non in azzurro, non voleva riceverlo nè per maestro, nè per compagno. — Hai ragione,» disse il re; «ti darò una maestranza, e se alcuno osasse molestarti, lo farò impiccare alla porta della tua bottega.» In pari tempo, comandò a due architetti di costruire un’officina pel mercante forastiero, oppure una casa, ch’ei farebbe edificare a proprio gusto. Gli fece dare inoltre un cavallo, una pelliccia d’onore ed una borsa di mille zecchini. — Voglio,» disse, «incoraggiare l’industria, e stabilirla ne’ miei stati. — «Il domani, Abukir percorse coi due architetti la città, e scelse una casa che gli parve opportuna. Dietro i suoi ordini, ne formarono un’officina unica nella sua specie. Quindi il re gli mandò cinquemila zecchini, affinchè si procurasse gli utensili ed i colori necessari. Abukir tinse cinquecento pezze di stoffa di colori diversi, e le distese davanti alla sua bottega.