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«Passava la massima parte dei giorni nella casa della sua diletta. Siccome era abbandonata, la solitudine non faceva che vie maggiormente accrescerne il dolore, perchè rammentava tutti i piaceri gustati fra quelle mura. Era Mesrur immerso in melanconiche riflessioni, allorchè udì un corvo che aveva fatto il nido sul tetto della casa; e tosto improvvisò quanto segue:
«O corvo! che vieni tu a fare nella casa della mia diletta!
«Vieni a gemere, colla lugubre tua voce, sui tormenti dell’amor mio!
- Aimè! aimè! il fuoco mi consuma. L’eco e le tue grida ripetono: Aimè! aimè!»
«Un giorno Mesrur incontrò la sorella di Zein-al-Mevassif, la quale non ignorava il suo amore. Volle essa consolarlo, ma i suoi discorsi, lungi dall’asciugarne le lagrime, non fecero che raddoppiarle. — Come volete sperare,» le diceva, «che rinasca in me la calma? Ah! perchè non sono un uccello! volerei ai luoghi dov’essa abita. — Eppure non vi rimane,» disse la sorella, «altro rimedio che la pazienza.» La pregò Mesrur d’incaricarsi d’una lettera per Zein-al-Mevassif, ed avendo ella acconsentito, scrisse una lettera pateticissima. La donna la sigillò con ambra e muschio, e la affidò ad un mercante, pregandolo di consegnarla alla sorella in persona, oppure alla fedele sua schiava.
«Zein-al-Mevassif, ricevuta la lettera, se la portò agli occhi, l’innondò di lagrime, e le diede non men tenera risposta. Ma il marito, scoperto che ad onta della distanza d’un mese di cammino frapposta tra di loro, la corrispondenza durava sempre, risolse d’andare ancor più lungi, ed ordinò di disporre ogni cosa per la partenza. — Ma sin dove andremo adunque?! gli domandò Zein-al-Mevassif. — Sino in capo al mondo, se bisogna,» rispose il marito, «all’uopo di mettere