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grida di guerra: Fuoco e Sole! da una parte; Dio ed Abramo! dall’altra, ergeronsi sino ai cielo. Gharib, secondato da’ due maredi, fece una strage orribile; il sangue corse a torrenti, ed il nostro eroe colla sua sciabola incantata rovesciò l’alfiere nemico. A tal vista, gl’infedeli perdettero affatto il coraggio, e si dispersero come una mandra di pecore; Scebur istesso rimase prigioniero.

«Lavatosi del sangue ond’era coperto, e fatte le abluzioni, Gharib comandò di condurgli il re di Persia. — Cane,» gli disse, «che hai fatto di tua figlia? non era io degno d’esserle sposo? — Perdona,» rispose Scebur, «e credi al mio pentimento; la sola necessità ha potuto forzarmi a prender l’armi contro di te. — Si percuota colle verghe,» sclamò Gharib, «e sia avvinto di catene!» L’ordine fu all’istante eseguito.

«Avendo poi ordinato d’annunziare l’islamismo all’esercito persiano, centocinquantamila uomini l’abbracciarono tosto. L’eroe entrò in trionfo in Isfahan, sedette sul trono di Scebur, e divise tra’ suoi il bottino. Il popolo formò mille voti per lui; ogni luogo rimbombava di grida di gioia: la sola madre della principessa mandava dolorosi gemiti. — Perchè queste lagrime che turbano l’allegrezza universale?» chiese Gharib. — Sono i pianti d’una madre sventurata che perdette la figlia, e che abbandonasi alla sua disperazione. Aimè! se vivesse ancora la mia cara Fakhartadj!...» Il giovane non potè allora frenare le lagrime, ma in breve il suo dolore cangiandosi in rabbia contro Scebur, comandò di condurglielo per sapere cosa avesse fatto della giovane.

Dietro le sue rivelazioni, si fecero le più accurate indagini, e si seppe che non era stata annegata, essendosi contentati quelli che ne avevano avuta la commissione, di abbandonarla soltanto sulle sponde