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«Li presero i due maredi sugli omeri, e partirono al tramonto del sole, giungendo verso le quattro del mattino nel regno di Cascemire, lontano quattro mesi circa dal luogo di loro partenza. Discesero ai palazzo del re Tartekan, che aveva passata quella notte senza poter dormire, tormentato dall’inquietudine che gli cagionava la sorte del suo esercito e del figlio. Allorchè rivide il principe, sulle prime lo credette uno spettro, e la sorpresa crebbe ben più quando udì gridarsi: « — Guai a voi se non rinunziate all’adorazione del fuoco, e non venerate il Dio unico, il Dio vendicatore, creatore del giorno e della notte, che vede tutti e niuno vede! » Infuriando il re a tale discorso, slanciò contro il figlio un idolo di ferro che gli capitò per caso alla mano; per fortuna, il principe evitò il colpo, e l’idolo, battendo nel muro, spezzò tre lastre di marmo. Gharib comandò ai geni d’impadronirsi del re e caricarlo di ceppi; fu obbedito sull’istante, e poscia salito sul trono: — Vecchio rimbambito,» disse al re, «rinunzia all’adorazione del fuoco, se vuoi salvarti in questo mondo e nell’altro. — No,» rispose Tartekan, «voglio morire nella religione de’ miei padri.» Allora Gharib, sguainata la sciabola di Yafet, fe’ in due pezzi il re, gettandone il cadavere alle porte del palazzo, benchè oscurissima fosse ancora la notte. Investì poscia dell’impero il principe, e comandò ai due geni fedeli d’arrestare ad uno ad uno i grandi della corte al momento che si recassero all’alzarsi del re. Il primo che giunse allo spuntar del giorno fu il vicerè. Da prima non potè ben distinguere l’oggetto che vide all’ingresso del palazzo: ma rabbrividì d’orrore, riconoscendo il cadavere diviso in due. I geni fedeli, non lasciandogli tempo di rinvenire dallo spavento, lo pigliarono, legandolo prima che potesse riaversi. La stessa sorte su-