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che mi gettò nella perturbazione e nello spavento, nè mi lascia riposo. » A quei detti il principe perdette la pazienza. — Pel fuoco e la luce! per la notte e le tenebre!» sclamò; «se non me lo traete qui prigioniero, vi faccio mozzare il capo.» Agib così costretto a combattere contro voglia, si volse al fratello con tanta arroganza, quanta viltà aveva dimostrata dinanzi al principe indiano. — Vendetta per mia madre! » gridò Gharib, precipitandosi su di lui, e senza valersi della fulminea scimitarra rimessa ai geni, atterrò Agib con un colpo di clava e lo fece prigione. Il principe dell’Indie allora, vedendo la costui sorte, domandò le armi, e si spinse innanzi per combattere Gharib, ingiuriandolo così: — Miserabile Arabo! marrano! ora t’insegnerò io a vivere, a te che osi far la guerra ai monarchi! Scendi subito da quel cavallo, vieni a baciarmi la staffa, e ponti da te medesimo le catene, acciò ti conduca nel mio paese dove vivrai di pane ed acqua.» Allorchè Gharib udì quelle parole, non potè trattenersi dal ridere. — O cane!» sclamò, «più cane di tutti coloro che ho incontrati in mia vita, sguaina la sciabola, e bada alla maniera con cui sono per farti passare il tempo! Ma frattanto,» soggiunse, volgendosi a Sehmalleil, «fa tagliare la testa ai prigionieri. » Assalì quindi il principe delle Indie con istupenda vigoria; ma trovato in lui un degno competitore, pugnarono con esito incerto per tutto il giorno: la notte pose fine al conflitto. — Combatteste a lungo quest’oggi,» dissero a Gharib i suoi guerrieri, «come se ne aveste avuto d’uopo per riportar la vittoria. — È vero,» rispose, « ma aveva da fare col più valoroso cavaliere, e siccome era mio disegno di farlo prigione, buttandolo di sella, non mi valsi della sciabola di Yafet. —

«Dal canto suo, il principe delle Indie, tornato