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è grande, la vittoria viene da lui!» Si dicendo attaccò l’eroe indiano, ed al primo colpo lo stese al suolo. In pari tempo, disse a Sehmalleil, che per caso trovavasi colà, di legare il prigione. Siccome non erasi alzata la visiera, niuno dei credenti nè degli infedeli il riconobbe. Ma fatti cinquantadue prigionieri in singolar tenzone, ed accostandosi la notte, si levò l’elmo e si fece conoscere. Chi potrebbe descrivere la gioia di quei fedeli guerrieri allorchè rividero il loro re sano e salvo? Tutto l’esercito gli si affollò intorno per baciargli piedi e mani, talchè fu quasi soffocato dalla moltitudine. Sbarazzatosene per tornare al suo palazzo, chiamò i due maredi, e: — Desidero,» disse loro, «che mi trasportiate a Kufah per rivedere il mio serraglio; ma voglio essere di ritorno prima dell’alba. — Nulla di più facile,» risposero i maredi; «v’hanno da qui a Kufah sessanta giorni di cammino, ma per noi ne occorre tutt’al più una mezzoretta.» Ve lo trasportarono infatti, e colà non fu minore la gioia. Damigh, zio di Gharìb, e tutto l’harem erano fuor di sè per l’allegrezza del ritorno inatteso del loro sovrano. Gharib, contate allo zio tutte le sue avventure nel paese dei geni, gli presentò la nuova sposa Stella-del-Mattino, indi andò a riposo. Un’ora innanzi l’aurora alzossi, tornò ad Omman, ed ivi, riprese le armi, diede gli ordini necessari per assicurarsi la vittoria.
«Fu Gharìb in persona che aprì la mischia, chè, inoltratosi sul suo cavallo in mezzo ai due eserciti, sclamò: — Vi sfido io solo: chi non mi conosce, venga ad imparar a conoscermi!» Il figlio del re delle Indie disse ad Agib, che trovavasi nel suo esercito: — Siete voi che ci trascinaste in questa guerra; andate a combattere vostro fratello, e conducetelo prigione. — Rivolgetevi ad altri, ve ne supplico, «rispose Agib; «ho fatto stanotte un sogno orribile,