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ciossi sull’altro, e scorrendo di fila in fila, gridando ad alta voce: — Dio è grande!» fecero una spaventosa carneficina. Più di trentamila maredi rimasero su campo, ed il resto cercò salvezza nella fuga.
«Per fortuna di Berkan, uno de suoi fedeli lo sciolse da’ ceppi, talchè pervenne a salvarsi coi rimasugli dell’esercito durante il tumulto. Di ritorno nella città d’Onice, adunò i capi delle truppe, che lo felicitarono della sua salute. — Che salute è mai cotesta?» disse; «vinto, prigioniero, e disonorato per sempre innanzi agli altri sovrani de’ geni! — È destino dei re,» risposero i cortigiani, «d’essere ora vincitori ed ora vinti. — No, no!» gridò egli, «bisogna che mi vendichi, o voglio cessare di essere contato tra i re dei geni.» E immantinenti diresse circolari a tutte le tribù di geni a lui sommesse od alleate: trecentomila de’ suoi sudditi, geni, maredi, folletti, demoni d’ogni specie, accorsero per riceverne gli ordini. Ei comandò loro di tenersi pronti a mettersi fra tre giorni in marcia.
«Intanto, accortosi Merasce della fuga di Berkan, deliberava con Gharib sul partito da prendere, e risolsero di prevenire il nemico. — Torna a casa, fratello,» disse Merasce a Gharib, «e lasciami combattere i nemici. — Pel Dio vendicatore, nol farò!» riprese il giovane. «Non partirò di qui prima d’avere sterminato i geni infedeli dannati al fuoco eterno, ed essere giunto a farvi riconoscere dovunque pel vero re! Ma Sehmalleil soffre, ed io voglio mandarlo ad Omman.» Fu questi confidato a due maredi, che dovevano averne cura perla strada, e partì colmo di presenti.
«Centocinquantamila geni fedeli avendo prese le armi, si marciò verso la città d’Onice e la terra d’Oro. I due eserciti incontraronsi a metà strada, e vennero alle mani con accanimento eguale d’ambe le parti.