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tenesse, e Merasce: — È,» rispose, «la sciabola di Yafet, figliuolo di Noè, colla quale combatteva contro gli uomini ed i geni. È opera del savio Gerdun, il quale incise sulla lama talismani e parole sì potenti, che nulla le resiste, nemmeno le montagne. Chiamasi questa sciabola il polverizzatore, poichè riduce in polvere tutto ciò che tocca. — Voglio vederla davvicino,» disse Gharib, e non aveva finite quelle parole, che già impugnava la scimitarra. Era lunga dodici piedi e larga tre, e vedeansi sulla lama gli emblemi della morte. — Vediamo,» disse Merasce, «se potrete maneggiarla.» Gharib la prese e la brandì come una canna. — Siete degno,» sclamò il genio, «di possedere quella sciabola unica, che sarà eterno oggetto d’invidia agli eroi ed ai re. —

«Durante il resto del giorno, Merasce percorse cogli ospiti le piazze e le vie della città, non meno dei giardini magnifici de’ quali era circondata. La sera tornarono al palazzo di Yafet dove si cenò. Mentre erano a tavola, Gharib mostrò il desiderio di tornar a casa a rivedere il suo popolo. — Oh!» gli disse Merasce, «bisogna che restiate alla mia corte ancora un mese almeno; mi è impossibile rinunziare al diletto della vostra società.» Sarebbe stato sconveniente ricusare quell’invito, e Gharib e Sehmalleil rimasero quindi un altro mese nella città di Yafet, colmati dai re de’ geni di regali in oro, argento, rubini, smeraldi, diamanti, musco, ambra e ricche stoffe di seta. Inoltre fece fare due abiti di stoffa di Vekha, ricamati d’oro, e vi aggiunse un magnifico diadema per Gharib. Chiamati poscia cinquecento maredi, loro comandò di prepararsi per la domane onde ricondurre gli ospiti nel paese natio. Tutto era pronto per la partenza la mattina appresso allo spuntar dell’aurora, allorchè fu improvvisamente udito uno strepito spaventevole di cavalli, d’armi, di trombe e di