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«Allorchè Gharib più non fu che a breve distanza da questa città, mandò Sehmalleil con una lettera pel fratello concepita come segue:
«In nome di Dio clemente e misericordioso! Pace e salute al tuo diletto Abramo!
«Vi facciamo colla presente sapere come bisogna, appena ricevuto il nostro scritto, che riconosciate l’unità di Dio, primo principio di tutte le cose, e rinunciate all’adorazione degl’idoli.
«Se abbracciate l’islamismo, vi considererò come mio signore e fratello, e vi perdonerò la morte de’ miei genitori. In caso contrario, i vostri giorni sono contati ed il vostro regno è perduto.
«Salute a chi segue la retta via, ed è fedele a Dio, re di tutti i re.»
«Appena Agib ebbe letta la lettera, montò in tal furore, che uscivangli gli occhi dalle orbite, e digrignava come rabbioso i denti.
«— Pigliate il messo, fatelo in pezzi! a gridò a quelli che gli stavano intorno. Sehmalleil si difese coraggiosamente, ed apertosi colla sciabola il varco in mezzo a’ nemici, raggiunse, coperto di molte ferite, la tenda di Gharib, il quale, giustamente irritato, fece all’istante avanzare l’esercito. Rimbomba la terra sotto i piedi dei cavalli, i guerrieri si coprono di ferro, scintillano le scimitarre, urtansi le lance, ed i due eserciti vengono alle mani. Scorreva il sangue a torrenti, le teste cadevano da tutte le parti, il bravo ed il vile giacevano insieme nella polve. La perdita, allorchè la notte venne a disgiungere i combattenti, fu eguale da ambe le parti.
«Il giorno appresso, all’alba, scagliaronsi di nuovo l’un sopra l’altra le due armate, come l’onde furenti di due mari sconvolti dalla tempesta. Tremava la terra, i cavalli calpestavano i guerrieri, ed il sangue corse a rivi sino al momento che le tenebre successero al giorno. Il dì dopo, ripigliaronsi l’armi