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coste di una terra sconosciuta. Era quel paese abitato da selvaggi negri, i quali, non avendo mai veduto altri uomini, alla vista del vascello fuggirono, ma poi tornarono, portando presenti e vettovaglie. Discesero quelli dell’equipaggio, ed andando a passeggiare per l’isola, incontrarono due pescatori, uno dei quali pigliò colle sue reti un vaso di bronzo sigillato col suggello di Salomone. Levato al vaso il coperchio, ne uscì un fumo nero con una voce che fece udire queste parole: — Perdono, misericordia, profeta di Dio!» Il fumo formossi poi subito in un enorme gigante, che si perdette nelle nuvole. I marinai, colti da terrore, caddero privi di sensi; ma i negri nulla trovarono di sorprendente in quell’avventura. Secondo il loro racconto, avendo Salomone chiusi in tali vasi i geni ribelli, e gettatili quindi in mare, trovavansi essi talvolta posti in libertà, come accadde in quell’occasione, ed allora domandavano al profeta di Dio perdono della loro sollevazione.

«Quel racconto interessò vivamente il califfo Abdalmelek, talchè dimostrò il maggior desiderio di vedere uno di quei vasi di bronzo improntati col sigillo di Salomone. — Nulla di più facile,» ripigliò Talib, figlio di Sehl; «il paese de’ negri, dove fummo sospinti nel nostro naufragio, giace in mezzo all’Africa tra l’Egitto e Mogrib; ordinate a’ governatori di dette due province di farvi ricercare simili vasi di bronzo. — Hai ragione, Talid,» disse il re, «ed incarico anzi te di tale commissione.» Fece quindi scrivere due lettere, una a suo fratello Abdalaziz, vicerè d’Egitto, e l’altra a Mussa, figlio di Nassir, vicerè di Mogrib, colle quali ingiungeva loro di accompagnare in persona Talib nella ricerca di que’ vasi, e non risparmiare a tal uopo fatiche, nè spese, facendo in pari tempo dare a Talib una somma considerevole e numerosa scorta, colla quale questi preso la via dell’Egitto.