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NOTTE DLVI

— Quando Zabide gli ebbe lanciato sfogare per qualche tempo il suo dolore: — Promettetemi,» gli disse, «di non attentare ai vostri giorni durante un’assenza che m’è necessaria all’esecuzione d’un progetto che credo utile alla nostra situazione: la mia amicizia per voi non trova nulla d’impossibile; quanto mi narraste non è naturale; io saprò scoprire la verità: almeno v’adoprerò tutti gli sforzi, e se non posso diminuire la vostra mestizia, lungi dal biasimare, al mio ritorno, la disperazione vostra, sarò la prima, ve lo giuro pel nostro gran Profeta, ad approvarvi, somministrandovi anche i mezzi di finire una vita sì trista.

«— Me lasso!» rispose il re, con voce interrotta dai singhiozzi; e perderò la consolazione di vedere una diletta sorella, e non avrò quella di morire nelle sue braccia! Ecco ciò che il suo zelo e la sua amicizia mi procureranno.

«— Chi sa mai» soggiuns’ella, «se i vostri occhi non v’abbiano ingannato? Se qualche genio, invidioso della vostra beltà, non siasi preso giuoco di voi? Chi sa anche che non abbiate fatta impressione sul cuore di quella principessa?

«— Aimè!» sclamò il re; «questa felicità non può essere serbata ad un mortale; io non posso pretendervi, e di certo ho veduta una delle Huri del santo Profeta. La fiamma che mi divora n’è una sicura prova. —