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vestito di nero, come avevami detto il dervis; la tristezza più cupa regnava dovunque: non vi si riceveva alcuna accoglienza: non si attirava niuno sguardo, e tutti quelli che portavano il lutto, camminavano, per attendere ai propri affari, cogli occhi bassi, la testa coperta dal berretto, e sepolti, per così dire, nei propri abiti. Fui dunque obbligato di passare molti giorni nel khan dov’era diceso, senz’altra occupazione fuor di passeggiare per la città, e cercare qualcuno che volesse rispondere alle mie domande.

«Aveva tentato tutti i mezzi possibili per conversare con quelli che vedeva vestiti di nero, ma essi non mi ascoltavano, o rispondevano sol con un profondo sospiro. Mi persuasi che un uomo, il quale non fosse in gramaglia, mostrerebbesi più disposto a soddisfarmi. Dopo alcuni giorni, strinsi amicizia con un giovane mercante; era affabile cogli stranieri, cantava a meraviglia, e suonava bene vari strumenti: il suo viso era più bello del sole. Egli fu sì contento del mio conversare, che, dopo avermi usato molte cortesie, volle assolutamente condurmi a casa sua.

«Io accettai, ed il primo giorno che andai ad alloggiarvi, mi diede un gran pranzo nel quale fui trattato con buon gusto e pari magnificenza. In poco tempo divenni il suo amico e confidente. Vedendo ch’egli eludeva sempre le domande che la mia curiosità spronavami a fargli sulla tristezza ed il lutto sparso nella città, abbracciai un giorno le sue ginocchia, e lo supplicai, per l’ospitalità esercitata generosamente verso di me, d’istruirmene, e non rendere inutile un sì lungo viaggio da me non intrapreso se non in tale intenzione. Il giovine m’ascoltò con molta pena, e risposemi coll’accento dell’amicizia e dell’interesse: — Cessate, fratel mio, di voler essere istruito d’una cosa che può cagionarvi infinito dolore; imitatemi: io non volli mai co-