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otri pieni d’acqua. — D’onde vieni? ove vai? che porti?» gli chiese il sultano. — Sono,» colui rispose, «uno de’ tre che abitano questi luoghi, i miei compagni ed io siam fuggiti dal nostro paese per evitare il castigo d’alcuni peccatucci, ed ogni dieci giorni uno di noi va a fare le provviste: oggi toccava a me; i miei amici fra poco torneranno: passate la notte con noi, se v’aggrada, e vedrete che l’allegria visita talvolta il nostro soggiorno.» Accettò il sultano la proposta, e commise ad alcuni del seguito di andar a prendere quanto occorreva per fare una buona cena. Giocondamente trascorse la notte, e alla domane, avendosi il principe fatto narrare dai tre ospiti le diverse avventure che li avevano costretti ad uscire dalla città, accordò loro piena ed intera grazia. Erasi il sultano specialmente dilettato della conversazione e dello spirito loro; talchè fattili un giorno venire, uno di essi, di suo ordine, cominciò la storia seguente:
STORIA
DEL SULTANO DI HIND.
«— C’era una volta nell’India un sultano, le cui ricchezze e la potenza poteano dirsi immense, ma al quale il cielo aveva negato di esser padre. Un giorno, divorato dalla noia e dal cordoglio, rivestitosi d’una pelliccia color di fuoco, si recò al consiglio. Il visir, spaventato alla vista di quell'abito di duolo, gli chiese per qual motivo lo avesse indossato. — Aimè!» rispose il sultano; «esso dipinge la tristezza del mio animo. — Recati nel gabinetto che racchiude i tuoi tesori,» riprese il ministro, «e contempla quelle ricchezze: forse lo splendore dell’oro e le lucide