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assai, e pareva avesse servito a tener legato un uccello. Lo raccolse, se l’annodò intorno al turbante, e riprese il cammino della città, tutto altero della scoperta. Ma quando fu prossimo a giungervi, incontrò i fratelli, i quali, precipitatolo da cavallo, lo percossero e gli strapparono il gioiello. Li superava egli ambedue in forza e valore; ma temette, punendo gli aggressori, di eccitare la collera del sultano, e compromettere così la sicurezza della madre; talchè sofferse, senza mormorare, l’indegno trattamento e la perdita fatta.

«Dopo simile atto di viltà, rientrati i principi nella reggia, offrirono il collare al sultano, il quale, ammiratolo assai, disse ai figliuoli: — Non sarò contento se non quando avrò l’uccello al quale questo collare deve appartenere. — Ne andremo in traccia,» risposero i giovani, e lo recheremo al nostro augusto padre e sultano. —

«Fatti i necessari preparativi, i due fratelli partirono, ed il minore, montato sul suo cavallo storpio, ne seguì le orme. Dopo tre giorni di cammino, trovossi in un deserto, ed attraversatolo con molta fatica, giunse infine, dopo infiniti stenti, alle porte d’una città sconosciuta, entrando nella quale, udì da ogni parte gemiti e grida di disperazione; poco dopo incontrato un vecchio venerabile, e salutatolo rispettosamente, gli chiese la cagione di quel lutto universale. — Figliuolo,» rispose il vecchio, «sono quarantatrè anni che, in un dato giorno, presentasi alle nostre mura un mostro terribile, il quale c’intima di abbandonargli una verginella, minacciando, in caso contrario, di distruggere la città. Troppo deboli per difenderci, abbiamo subito la crudele condizione, ed ogni anno la sorte designa quella delle nostre figliuole ch’esser deve sagrificata. Il decreto fatale è oggi caduto sulla bella e virtuosa figlia del nostro sultano.