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mato il matrimonio, ed il giovane gustava tanta beatitudine presso alla nuova sua famiglia, che per sette intieri giorni non uscì dall’harem. L’ottavo, il sultano comandò pubbliche allegrezze, ed invitò gli abitanti della città a venir a prender parte ai banchetti che voleva dare, facendo pubblicare un bando che vietava a chiunque, ricco o povero, di mangiare in casa propria per tre giorni, ingiungendo invece a tutti d’intervenire al convito nuziale della figliuola. Riempiti i cortili del palazzo di provvigioni, gli ufficiali del principe furono per tutto quel tempo impiegati a servire il popolo, che accorse pieno di premura agl’inviti del suo Sovrano.

«In una delle notti di quella gran festa, bramoso il sultano di sapere se tutti obbedivano alla sua intimazione, risolse di correre la città travestito; laonde, lasciando segretamente il palazzo, accompagnato dal visir, travestito com’egli da dervis persiano, cominciò la sua escursione. Verso mezzanotte, videro per le gelosie d’una finestra tre giovanette a cena colla madre. Una di esse tratto tratto cantava, e le altre due cianciavano e ridevano. Il sultano ordinò al visir di bussare alla porta: una delle sorelle domandò chi battesse ad ora così inoltrata della notte. - Siamo due dervis forestieri,» rispose il ministro. — Ci troviamo sole,» soggiunsero quelle dame, «e qui non v’ha un sol uomo per ricevervi; recatevi al palazzo del sultano, e vi sarete ben trattati. — Aimè! siamo stranieri, e non sappiamo la strada che vi guida; d’altronde, temiamo che il giudice di polizia non c’incontri e ci arresti. Vi supplichiamo di accordarci l’ospitalità sino allo spuntar del giorno; partiremo subito. Non temete da parte nostra alcuna cattiva azione. —

«Commossa la madre a tali parole, ordinò alle figlie di aprire. Entrati i nostri viaggiatori, le salutarono