Pagina:Le mille ed una notti, 1852, VII-VIII.djvu/120


106

sclamò poscia, alzandosi d’improvviso, «giuro che, se hai detto il vero, abdico, e ti cedo una corona che non mi sento più degno di portare; ma se sei un impostore, la tua morte mi vendicherà di tanta audacia. — Mi sottopongo a tutto,» replicò il genealogista.

«Il sultano corse subito al serraglio, e precipitandosi, colla sciabola sguainata, nell’appartamento della madre: — Per Colui che divise il cielo dalla terra,» gridò, «se tu non rispondi il vero alle mie inchieste, questa scimitarra mi farà giustizia della tua perfidia. — Che volete da me, figliuol mio?» rispose la sultana spaventata. — Sapere il nome di mio padre. — Ah! poichè la sola verità mi può salvare, sappiate che siete figliolo d’un cuoco. Il mio sposo non avea prole, e ne provava tal cordoglio, che la sua salute ne soffriva in modo inquietante. Eravi nella corte dell’harem un’uccelliera piena d’augelli di varie specie. Un giorno, venuta voglia di mangiarne al Sultano, ordinò al cuoco d’apprestargliene uno pel pranzo. Io mi trovava sola nella sala da bagno quando quell’uomo passò; al vederlo e per ispirazione di satana, l’immaginazione mi dipinse, con maggior forza che mai, che se non dava un figliuolo al sultano, alla morte di mio marito avrei perduto grado ed influenza. Adescai dunque quel miserabile, e voi foste, o sire, il frutto dell’error mio. Allorchè il sultano, deluso, seppe ch’io era madre, non potè moderare la propria gioia, ed in pochi giorni ricuperò la salute. Tutti quelli che lo avvicinavano risentivansi della sua felicità: erano ad ogni istante presenti e favori novelli. Finalmente vi misi alla luce: il mio sposo ordinò le feste più brillanti, che durarono quaranta giorni, e tutto prese a noi intorno un aspetto di gioia e d’ebbrezza. Tale fu il mio fallo e l’origine vostra. —