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mento una notizia di molta importanza. L’emiro entrò ed espose la sua notizia, la quale non poteva essere infatti nè più importante, nè più trista. Schabur aveva pubblicato l’ordine che ingiungevagli di licenziare la maggior parte delle truppe, ma il perfido non erasi affrettato di metterlo in esecuzione: i soldati mormorarono, come aveva preveduto, contro un congedo senza motivo, che li rimandava ai vili lavori di cui avevano perduta l’abitudine; ed il visir, sotto pretesto di estinguere il fuoco della sedizione, fece quanto ci voleva per estenderlo sempre più; biasimando mollemente gli ammutinati, parve compiangerli, e scopertosi apertamente ad alcuni ufficiali, parlò del tesoro di Safeddin, facendo intendere che, se ne avesse avutala chiave, tutti sarebbero rimasti contenti.

«Intanto avvicinavasi ognor più a Damasco, e non n’era distante più di due piccole giornate, quando, vedendo le cose al punto che infine voleva, levò la maschera, e fece ribellare tutto l’esercito: in una parola, era stato proclamato sultano.

«Invano Morad tentò opporsi alla rivoluzione, aveva veduto un pugno di bravi, ch’eransi uniti a lui, tagliati a pezzi dai ribelli, e preferendo alla fine la salvezza del padrone alla gloria di morire come quei fedeli guerrieri, si era schiuso il varco colla scimitarra in pugno, per correre ad annunziar al sultano il pericolo che minacciava la sua persona.

«— Aimè! signore,» aggiuns’egli, «questo pericolo incalza ancor più che non pensiate; Togrul, il degno figlio di Schabur, ha sedotto gli abitanti della vostra capitale e corrotte perfino le vostre guardie, e non aspetta, a quel che mi si disse, se non un corriere del padre per portare su voi le sue scellerate mani. Questo corriere è forse già alle porte di Damasco, e per salvare la vostra sacra testa, ho appena il momento in cui vi parlo. O mio augusto signore,