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io mi era imposto un dovere d’astenermi dal metterlo alla prova. Considerate adunque, ve ne scongiuro, non esser io, ma il sultano mio padre che vi fa la domanda indiscreta, a quanto parmi, d’un padiglione che stia nella mano e che lo metta al coperto dalle ingiurie della stagione, quando trovasi in campo, con tutta la sua corte e l’esercito. Ancora una volta, non son io, è il sultano mio padre che vi chiede questa grazia.

«— Principe,» rispose la fata sorridendo, «mi duole che sì piccola cosa v’abbia cagionato l’imbarazzo e l’angostia di spirito onde vi scorgo afflitto. Ben veggo che due cose vi hanno contribuito: una è la legge che v’imponeste di contentarvi d’amarmi e di essere da me riamato, ed astenervi dalla libertà di volgermi la menoma domanda che mettesse il mio potere alla prova; l’altra, che v’immaginaste essere la domanda, cui il sultano vostro padre esigette che mi faceste, superiore a questo potere. Quanto alla prima, vi lodo, e ve ne amerei di più, se fosse possibile circa poi alla seconda, mi sarà facile farvi comprendere che quanto il sultano domanda è una bagatella, e che, all’occasione, posso altra cosa ben più difficile. Mettete dunque l’animo in calma, e siate persuaso che, lungi dall’importunarmi, mi farò sempre un gratissimo piacere d’accordarvi tutto ciò che potrete desiderare ch’io eseguisca per amor vostro. —

«Ciò dicendo, la fata comandò si chiamasse la sua tesoriera, e venuta questa: — Norgihan (era il nome della tesoriera),» le disse la fata, «recami il più gran padiglione che si trovi nel mio tesoro. —

«Tornò Norgihan pochi momenti dopo, e recò un padiglione che non solo stava nella mano, ma che anzi vi sì poteva nascondere chiudendola, e lo presentò alla sua padrona, la quale lo diede al principe Ahmed affinchè lo considerasse.»