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NOTTE CDLXXXVII

— Allo spuntar dell’aurora, i due guerrieri, armati di tutto pugno, abbracciate le spose, escono da una porta segreta. Giunti alla tenda dello scudiero, montano a cavallo e vanno ad aspettare entro le barriere che i guerrieri mandati da Zir vengano a rinnovar le consuete loro braverie. Non si fanno dessi attendere. Se ne veggono arrivar sei armati sino ai denti, seguiti da un piccolo corteggio, addetto di certo a’ loro servigi, ed avvicinansi alle barriere del campo. Uno di questi scende da cavallo, e volge la parola a quelli che lo guardano.

«— Gente d’Arabia, avete smarrito il senno a voler stare qui ignominiosamente rinchiusi, come il bestiame che finiste di consumare? Contate di morirvi di fame a fianco d’un cieco? Le catene che vi offriamo sono onorevoli, noi le destiniamo ai popoli più valorosi della terra, e soggiogandovi, non avrete che la sorte comune; affrettatevi a riceverle, ed avrete il vantaggio di essere uno de’ gradini del treno del potentissimo emiro Zir, nostro glorioso sovrano. Lasciate un vecchio impotente che non potrebbe con voi dividere se non le infermità, i bisogni e l’onta. — Tu menti, vile schiavo d’uno schiavo ribelle,» grida Habib, balzando d’un tratto fuor dalla palizzata, e gli scaglia con tutta la forza un guanto alla visiera. «Ecco il mio pegno di battaglia,» prosegue Habib; «ti prova ad attendere a piedi od a cavallo un cavaliere del grande emiro Selama.» E nello stesso tempo il prode, varcata la barriera, raggiunge l’avversario prima che abbia il tempo di rimontar a cavallo, nè d’imbracciare lo scudo.