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per cader in potere del nemico, e pronuncia neri scongiuri. Habib si accosta per ferire il genio abbattuto, e non iscorgendone che l’armatura, vede di non essersi impadronito se non della scorza d’un guerriero. Sparita era la sostanza materiale di Nisabic, nè il principe arabo immaginava che tal vittoria per lui fosse più preziosa del corpo del genio; perocchè essa spiegava in fatti la profezia, la quale diceva che, per rendersi padrone del ribelle, bisognava impossessarsi della sua casa di ferro; e l’oracolo aveva in mira l’armatura in cui stava racchiuso, e nella quale il genio pareva aver riposta tutta la fiducia. Habib calpesta quell’armatura, le cui proporzioni di molto eccedevano le stature comuni; con quattro fendenti ne spezza i nodi, ne disperde i frantumi, e compie così un altro senso dell’oracolo: Le potenze sottomesse a Nisabic saranno slegate e disperse.

«Rendendosi invisibile e ritirandosi sotto la volta che forma l’ingresso della sua dimora, il mostro fa l’ultimo saggio del proprio potere. Presentasi sotto la forma sua naturale colla scimitarra in pugno, ed attende Habib al varco della volta come per isfidarlo a singolar tenzone. Il giovane cade nell’agguato; retrocede il genio due passi, taglia il filo che tien sospeso la chiave della volta, e le rupi sul momento si sfasciano con orribil fragore. Appena il principe ode il primo scricchiolio, pronuncia con forza la formidabil parola del talismano, ed oppone alla caduta dei massi la lama sfolgoreggiante, talchè i rottami, cadendo, dispongonsi a destra ed a sinistra senza recargli il minimo danno; lo circonda un nembo orrendo di polvere, e non si ode intorno che gemiti e grida; era Nisabic che li mandava. — Arabo,» diceva il genio, «eccomi istruito dalla sventura: riconosco i tuoi destini ed i miei: ho creduto ad oracoli che m’ingannarono; ti attendeva da lungo