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gono, viene a riprendere la spada e lo scudo, e si mette in via.

«Appena giunto sulla cima del monte, un altro più inaccessibile gli si presenta. Nessun viottolo praticabile si offre alla vista; bisogna passare saltando le rocce. Se trovasi in pianura, cammina sopra una rena grossa ed ardente; non un cespo d’erbe nel sito meglio difeso dall’ardore del sole; non una goccia d’acqua: la natura ha diseccati quegli orridi climi, e sembra preparare ai viaggiatori la via dell’inferno.

«Habib, affranto di stanchezza, divorato dalla sete e dalla fame, vedeva esaurire le provvigioni di radici. Raddoppia il passo per giungere prima di notte alla montagna che gli sta dinanzi; vi arriva infine, dopo moltissimi sforzi, ma non vi trova nè sorgenti, nè burroni. Forma in fretta una capanna con alcune pietre, e vi si chiude tormentato dagli stenti e dai bisogni. Nondimeno, tenta il solo mezzo che gli rimanga di rinfrescarsi la lingua ed il palato, riarsi dall’ardore del sole e dalla polvere; vedendo che le rugiade son copiosissime nella regione che percorre, distende il fazzoletto sur una rupe, fuor del suo ricovero, e si propone di spremerne la rugiada appena lo stimi abbastanza imbevuto.

«Dopo tal precauzione, che lo guarentisce dal massimo dei mali, adempie a’ suoi doveri di musulmano, si corica e si addormenta tranquillamente.

«Desto coll’aurora, sorge ed esce dal ricinto per raccogliere il fazzoletto; o provvidenza! o benefizio! quel pannolino dal quale spreme l’umidità gli somministra, nel cavo d’un ciottolo, una coppa di benedizione, piena della più deliziosa bevanda, perchè condita dal bisogno.

«Benedicendo l’Altissimo, prosegue la sua strada. In mezzo a due rocce, trova un covile di tigri: la femmina vi avea partorito. Alla vista dello straniero,