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pel quale aveva avuto tanto attaccamento e tanta fiducia.
«Un giorno, entrando nella sua camera, udì i paggi parlare e far rumore in un gabinetto vicino: si avvicinò e tese l’orecchio.
«— A che ci serve quest’oro?» diceva uno; «noi non possiamo spenderlo, nè comperar nulla con esso. — Mi è odioso,» diceva l’altro; «ci ha fatto commettere una cattiva azione, giacchè noi fummo cagione della morte di Abutemam. Se avessi saputo che il re doveva farlo perire così, io non avrei parlato male di lui. Ma la colpa è di que’ malvagi visiri, che ne fecero dire quello che hanno voluto.—
«Il re, udito questo discorso, schiuse la porta del gabinetto, e trovò i paggi che giuocavano con monete d’oro. — Sciagurati!» disse loro; «cosa faceste, e da qual parte vi venne tutto quell’oro?» I paggi, spaventati, gli si gettarono a’ piedi, e chiesero grazia. — Io vi farò grazia,» soggiuns’egli, «se mi narrerete la verità; essa sola può sottrarvi agli effetti della mia collera.—
«I fanciulli raccontarono schiettamente quant’era avvenuto fra essi ed i visiri. Ilan-Schah si pentì allora d’aver creduto sì facilmente reo il favorito, immolandolo così precipitosamente in un primo impeto di collera. Lacerò gli abiti, si percosse il viso, e, strappandosi la barba, si abbandonò alla più violenta disperazione.
«— Me lasso!» sclamò nel proprio dolore; «ho immolato il mio migliore amico! Abutemam voleva star lontano dalla mia corte, io lo indussi ad attaccarsi a me, assicurandolo che non presterei mai orecchio alle calunnie; che nulla aveva a temere vicino a me; ed io stesso fui invece che l’uccisi!... Destino crudele! Io non posso ora che vendicarne la memoria, e far giustizia de’ suoi nemici. —