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«— Principe,» ripigliò la fata, «essendo molto tempo ch’io sono padrona della mia volontà, col consenso de’ miei parenti, non è in qualità di schiavo ch’io vi voglio accettare nella mia corte, ma come padrone della mia persona e di tutto ciò che m’appartiene e può appartenermi, dandomi la vostra fede, e volendomi aggradire qual vostra sposa. Spero non vi spiacerà se io vi provenga, con questa offerta. Già vi dissi che sono padrona della mia volontà: ora aggiungerò che non è lo stesso delle fate come delle donne mortali verso gli uomini, le quali non sogliono fare simili proposte, e terrebbono a gran disonore il procedere di tal guisa. Quanto a noi, lo facciamo, e crediamo che debba riescir gradito. —

«Ahmed nulla rispose a tal discorso della fata; ma compreso di gratitudine, crede non poter meglio manifestarla che coll’avvicinarsi per baciarle il lembo della veste. Non gliene diede essa il tempo, e presentatagli la mano, cui egli baciò, e trattenendo e stringendogli la sua: — Principe Ahmed,» gli disse, «non mi date voi la vostra fede, come io vi do’ la mia? — Ah, madama!» rispose il giovane, trasportato di gioia; «cosa potrei io fare di meglio, e che mi recasse maggior piacere? Sì, mia sultana, mia regina, io ve la do col mio cuore; senza riserva. — Se così è,» ripigliò la fata, «voi siete mio sposo ed io sono vostra sposa. I matrimoni tra noi non si celebrano con altre cerimonie, e sono più fermi ed indissolubili che non fra i mortali, ad onta delle formalità ch’essi v’arrecano. Adesso,» proseguì, «mentre si preparerà per questa sera il banchetto delle nostre nozze, siccome oggi probabilmente non avete preso nulla, vi farò recare una leggiera refezione, e poi vi mostrerò gli appartamenti del mio palazzo, e giudicherete voi medesimo se non sia vero, come vi dissi, che questa sala n’è la parte più meschina. —