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ventava la violenza, avea pensato a sottrarsene, e cercare un luogo d’asilo; ma siccome avea mangiato pochissimo la mattina, al suo arrivo al palazzo di delizia, si trovò talmente debole quando volle eseguire il suo disegno, che fu costretta ad abbandonarlo, e rimanere senz’altra risorsa fuor del proprio coraggio, colla ferma risoluzione di soffrire piuttosto la morte che mancar di fedeltà al fidanzato. Non aspettò quindi che l’Indiano la invitasse una seconda volta, mangiò, e riprese forze bastanti per rispondere coraggiosamente ai discorsi insolenti che colui, sul finire del pasto, cominciava a tenerle. Dopo varie minacce, quando vide che l’Indiano preparavasi ad usarle violenza, alzossi per resistergli, mandando altissime strida, le quali attrassero in un momento una torma di cavalieri, che tosto li circondarono entrambi.

«Era il sultano del regno di Cascemir, il quale, tornando col suo seguito dalla caccia, e passando da quel luogo, fortunatamente per la principessa di Bengala, accorreva al rumore. Rivoltosi all’Indiano, gli domandò chi fosse, e cosa pretendesse da quella dama che là vedeva; l’Indiano rispose con impudenza, essere sua moglie, e che a niuno competeva di frammischiarsi nel loro diverbio.

«La giovane, non conoscendo il grado, nè la dignità dell’uomo che tanto a proposito compariva per liberarla, smentì l’Indiano, e: — Signore, chiunque voi siate,» disse, «che il cielo manda in mio soccorso, abbiate compassione d’una principessa, e non prestate fede ad un impostore. Dio mi guardi dall’esser moglie d’un Indiano sì vile e spregevole! E un abbominevolo mago, che oggi m’ha rapita al principe di Persia, cui io era destinata in isposa, qui conducendomi sul cavallo incarnato che vedete. —

«Non ebbe la principessa di Bengala uopo di più