Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
57 |
«Apparteneva il giardino al califfo, ed eravi nel mezzo un gran padiglione, chiamato il Padiglione delle Pitture, a cagione che il principale suo ornamento consisteva in dipinti alla persiana, eseguiti da vari pittori della Persia, fatti venire espressamente dal califfo. L’ampio e superbo salone che quel padiglione formava, era rischiarato da ottanta finestre, con un lampadario per ciascheduna, e gli ottanta lampadari non si accendevano se non quando vi veniva il califfo a passar la sera, e fosse il tempo tranquillo tanto da non spirare un solo soffio d’aria. Formavano allora una bellissima illuminazione, che vedevasi assai da lontano nella campagna da quel lato, e da gran parte della città.
«La custodia del giardino era affidata ad un solo vecchio officiale, molto avanzato in età, chiamato Sceich Ibrahim, il quale occupava quel posto, dove messo lo aveva il califfo medesimo in ricompensa de’ di lui servigi, raccomandandogli bene di non lasciar entrare ogni sorta di persone, e specialmente di non permettere che sedessero e si fermassero sui due sofà che stavano alla porta al di fuori, affinchè fossero sempre puliti, e di castigare quelli che vi potesse, trovare.
«Un affare aveva quel dì obbligato il custode ad uscire, e non era ancor tornato; finalmente fu di ritorno, e alla poca luce del tramonto s’avvide subito che due persone dormivano sur uno de’ sofà, ambedue colla testa coperta da un fazzoletto per difendersi dalle zanzare. — Buono,» disse Sceich Ibrahim fra sè, «ecco gente che contravviene agli ordini del califfo; or ora insegnerò loro il rispetto che gli è dovuto.» Aprì la porta senza far rumore; e poco dopo tornò con una grossa canna in mano, e le maniche rimbeccate, e già stava per batterli con tutta forza, quando si trattenne. — Sceich Ibrahim,» disse fra sè,