Pagina:Le mille ed una notti, 1852, III-IV.djvu/651


233

«L’Ebrea entrò, e mia moglie, preso il diamante, poichè infine lo era, e di grande singolarità, che trovavasi ancora sul camino, presentandoglielo: — Ecco,» le disse, «è questo pezzo di vetro che fu cagione di tutto lo schiamazzo che udiste ier sera.» Mentre l’Ebrea, cognita d’ogni sorta di gemme, esaminava con ammirazione il diamante, essa le raccontò come avesselo trovato nel ventre del pesce, e tutto ciò che n’era derivato.

«Quando mia moglie ebbe finito il racconto, l’Ebrea, che ne sapeva il nome: — Aishach,» le disse, riponendole in mano il diamante, «credo come voi che sia vetro; ma siccome è più bello del vetro comune, ed io ne posseggo un pezzo consimile, del quale m’adorno talvolta, parmi ch’esso servirebbe ad accompagnarlo, e lo comprerei se voleste venderlo. —

«I miei figliuoli, udendo parlare di vendere il trastullo, interruppero la conversazione coi loro lamenti, pregando la madre di conservarlo; cosa che essa fu costretta a promettere per acchetarli.

«L’Ebrea, obbligata ad andarsene, uscì; ma prima di lasciar mia moglie, che l’aveva accompagnata sino alla porta, la pregò, parlandole sottovoce, che se avesse intenzione di vendere il pezzo di vetro, ne la avvisasse prima di mostrarlo ad alcuno.»


NOTTE CCCLVIII


La sultana, facendo sempre parlare il cordaio al cospetto del Commendatore de’ credenti, disse al sultano delle Indie:

— «Sire, l’Ebreo era andato di buon mattino alla