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campo ai ricchi di meritarsi, colle loro limosine, una maggiore ricompensa nell’altro mondo. —
«Il mio acciecamento era tanto grande, che non fui in istato d’approfittare del salutare consiglio. Non contento di ritrovarmi possessore de’ miei ottanta cammelli e saperli carichi d’inestimabili tesori, che doveano rendermi il più fortunato degli uomini, mi saltò in mente che la scatoletta di pomata presa dal dervis, e ch’egli avevami mostrata, potesse contenere qualche cosa di più prezioso che non tutte le ricchezze delle quali andavagli debitore.
«— Il luogo dal quale il dervis l’ha presa,» dissi fra me,» e la premura ch’ebbe d’impadronirsene, mi fanno credere che contenga qualche cosa di misterioso. —
«A tal pensiero, mi determinai di fare di tutto onde conseguirla. Io l’aveva in quel punto abbracciato, dicendogli addio. — A proposito,» chiesi, tornando verso di lui, «cosa volete fare di quella scatoletta di pomata? Mi pare si piccola cosa,» soggiunsi, «da non valer la pena di portarvela con voi; vi prego di farmene un dono. D’altronde, un dervis come voi, che ha rinunziato alle vanità del mondo, non ha bisogno di pomata. —
«Fosse piaciuto a Dio ch’ei me l’avesse negata, quella scatola! Ma quand’anche avesselo voluto, io non era più in me stesso, mi trovava più forte di lui, e ben risoluto a togliergliela colla violenza, affinchè, per mia intiera soddisfazione, non potesse dirsi ch’egli avesse portata via la minima cosa del tesoro, mal grado l’immenso obbligo che gli doveva.
«Lungi dal ricusarmela, il dervis se la trasse subito dal seno, e presentatamela colla miglior grazia del mondo: — Prendete, fratello,» mi disse, «eccola; voglio accontentarvi anche in questo. Se posso far di più per voi, chiedetelo pure; son pronto a soddisfarvi.»