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in cui io avevali messi, che il demonio dell’ingratitudine e dell’invidia venne ad impossessarsi del mio cuore. Deplorando la perdita degli altri quaranta cammelli, e più ancora le ricchezze ond’erano carichi: — Il dervis,» sclamai fra me, «non ha bisogno di tante dovizie; essendo padrone dei tesori, ne avrà a piacimento.» Così cedendo alla più nera in gratitudine, mi determinai d’improvviso a togliergli i cammelli carichi.

«Per eseguire tal disegno, cominciai dal fermare le mie bestie; poscia corsi dietro al dervis, chiamandolo a tutta gola per fargli comprendere d’avere qualche cosa ancora da dirgli, e gli feci segno di fermare anch’egli i suoi animali per aspettarmi; quando il vecchio udì la mia voce, sostò.

«Allora io, raggiuntolo: — Fratello,» gli dissi, «non v’ebbi appena lasciato, che considerai una cosa alla quale non avea pensato prima, ed a cui pensaste forse neppur voi. Voi siete un buon dervis, uso a vivere tranquillo, scevro da tutte le faccende del mondo, e senz’altro imbarazzo se non di servire a Dio. Forse non sapete in qual fatica v’impegnaste incaricandovi di tanti cammelli. Se volete darmi ascolto, ne condurre te seco voi soli trenta, e credo che ancora avrete estrema difficoltà a governarli. Potete prestar fede alla mia esperienza.

«— Credo che abbiate ragione,» rispose il dervis, il quale non vedeasi in istato di potermi resistere; «confesso,» soggiunse, «di non avervi riflettuto, e già cominciava a provare qualche inquietudine su ciò che mi dimostrate. Scegliete dunque i dieci che vi parrà, ed andatevene con Dio. —

«Ne presi dieci, e fattili voltare, li avviai acciò andassero in coda a’ miei. Non credeva trovare nel dervis tanta facilità a lasciarsi persuadere; talchè, sentendo aumentare la mia avidità, mi lusingai di non provar fatica ad estorcergliene altri dieci.