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inclinato l’animo a certi straordinarii trasporti di gioia, che comunichiamo d’un tratto la stessa passione a quelli che ci avvicinano, oppure facilmente alla loro partecipiamo. E talvolta pure siamo immersi in sì profonda malinconia, che diventiamo insopportabili a noi stessi, e ben lungi dal saperne dir la cagione, se ci venisse richiesta, non potremmo neppur noi trovarla per quanto si cercasse.
«Stava il Califfo un giorno in tale condizione di spirito, quando Giafar, suo fedele e diletto gran visir, venne a presentarsegli davanti; trovatolo solo, il che gli accadeva assai di rado, avvistosi, nell’inoltrarsi, che giaceva immerso in tetro umore, ed anzi non alzava neppur gli occhi per guardarlo, si fermò quel ministro, attendendo degnasse volgere su di lui lo sguardo.
«Il califfo sollevò finalmente il capo, e guardò Giafar, ma distolse subitamente gli sguardi, rimanendo nella stessa positura, immobile come prima.
«Non avendo il gran visir notato negli occhi del califfo nessuna cosa di spiacevole che lo risguardasse personalmente, presa la parola: — Commendatore de’ credenti,» gli disse, «mi permetta la maestà vostra di chiederle d’onde venir possa la malinconia che dimostra, e della quale mi parve sempre sì poco suscettibile?
«— È vero, visir,» rispose il califfo, mutando situazione, «che ne sono poco suscettivo, e senza di te non mi sarei avveduto di quella in cui mi trovo, e nella quale non voglio dimorar più oltre. Se non avvi nulla di nuovo che t’abbia costretto a venire da me, ti compiacerai inventare qualche cosa, per farmela passare.
«— Commendatore de’ credenti,» ripigliò Giafar, «solo il mio dovere m’indusse a qui recarmi, e mi prendo la libertà di rammentare alla maestà vostra