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sorte, la mise nel luogo stesso dov’egli stava prima, le volse i piedi verso la Mecca, ed uscì dalla stanza tutto in disordine, col turbante scompigliato, come uomo in estremo affanno. In tale stato, andò dal cailiffo, il quale allora tenea consiglio secreto col gran visir Giafar e con altri visiri, in cui riponeva maggior fiducia, e presentatosi alla porta, l’usciere, sapendo aver egli libero l’ingresso, gli aprì. Entrò egli allora, tenendo con una mano il fazzoletto sugli occhi, onde nascondere le finte lagrime che lasciava scorrere in copia, e battendosi coll’altra forte il petto, con esclamazioni esprimenti l’eccesso d’un vivo dolore.
— Ma, sire,» aggiunse Scheherazade, «il giorno viene ad impormi silenzio, e m’astringe a rimandare a domani la continuazione del racconto.»
NOTTE CCCIV
— Il califfo, uso a vedere Abu Hassan con volto sempre ilare e spirante gioia, rimase molto stupito vedendolo comparire in sì tristo stato, ed interrotta l’attenzione che prestava all’affare del quale pariavasi in consiglio, gli chiese la cagione del suo dolore.
«— Commendatore de’ credenti,» rispose Abu Hassan con singhiozzi e sospiri reiterati, «non poteva accadermi disgrazia peggiore di quella che forma il soggetto della mia afflizione. Lasci Iddio vivere a lungo vostra maestà sul trono che occupa con tanta gloria! Nuzhatul-Auadat, ch’ella, per sua bontà, aveami data in consorte, onde passar il resto de’ miei giorni con lei, aimè!... —
«A tale esclamazione, Abu Hassan finse d’avere