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NOTTE CCCIII


— Non tardò Abu Hassan a fare quanto avevagli detto Nuzhatul Auadat; si distese supino quant’era lungo sul lenzuolo messo sul tappeto in mezzo alla stanza, incrociò le braccia, e si lasciò fasciare in modo che parea non si avesse se non a metterlo nel feretro e portarlo a sotterrare. Sua moglie gli volse i piedi verso la Mecca, gli coprì il viso con una mussolina delle più fine, ponendovi sopra il turbante in guisa d’aver libera la respirazione; si scoprì poscia il capo, e colle lagrime agli occhi, i capelli penzolanti e sparsi, fingendo di strapparseli con alte strida, si mise a battersi le guance e percuotersi a gran colpi il petto, con tutte le altre dimostrazioni del maggior dolore. In tal condizione uscì, ed attraversato un ampio cortile, si recò all’appartamento della principessa Zobeide.

«Nuzhatul-Auadat metteva strida sì acute, che Zobeide le intese dalla sua stanza, e comandò alle schiave, che stavano allora presso di lei, di vedere d’onde provenissero quei lamenti e le grida che udiva. Corsero desse in fretta alle gelosie, e tornate ad avvertire Zobeide essere Nuzhatul-Auadat che inoltravasi tutta afflitta, la principessa, impaziente di sapere cosa le fosse accaduto, si alzò, andandole incontro sino alla porta dell’anticamera.

«Qui Nuzhatul-Auadat rappresentò a perfezione la sua parte. Appena scorse Zobeide, la quale teneva semiaperta la portiera dell’anticamera e l’attendeva, raddoppiò, inoltrandosi, le grida, si strappò a piene