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esternato al califfo, vale a dire, in grado di tenergli buona compagnia a tavola. Con tali disposizioni, non potevano mancare di passar insieme gradevolmente il tempo: talchè, la mensa loro stava sempre preparata ed ammannita, ad ogni pasto, delle più dilicate ed appetitose vivande che un oste avea cura di allestire e fornir loro; la credenza era sempre carica de’ vini più squisiti, e disposta in modo, che trovavasi a portata d’amendue gli sposi mentre sedevano a desco. Là, godevano un gratissimo solo a solo, intertenendosi di mille piacevolezze che facevanli schiamazzar più o meno dalle risa, secondo ch’erano meglio o men felicemente riesciti a dire qualche cosa di rallegrante. La cena era specialmente dedicata alla gioia: non vi si faceano servire se non di frutta eccellenti, di paste dolci e pasticci di mandorle; e ad ogni bicchiere che bevevano, eccitavansi l’un l’altro con nuove canzoni, bene spesso improvvisate a proposito intorno all’argomento onde favellavano. Quelle canzoni erano pure talvolta accompagnate da un liuto od altro istrumento che sapevano entrambi suonare.

«Passarono così un lungo spazio di tempo a tener buona tavola e divertirsi, senza mai pigliarsi pensiero della spesa, avendo l’oste, da loro scelto a tal uopo, dato ogni cosa a credito. Era dunque giusto che ricevesse qualche danaro, al qual fine presentò, loro il conto. Grossissima se ne trovò la somma, alla quale aggiunta l’altra cui poteva ascendere la spesa già fatta in abiti da nozze delle più preziose stoffe per ambedue, ed in gioielli di valore per la sposa, se ne trovò il totale tanto enorme, che si avvidero, ma troppo tardi, che di tutto il danaro avuto pei benefizi del califfo e della principessa Zobeide, in occasione del loro matrimonio, non restava più loro se non quanto precisamente occorreva per saldarlo. Ciò li condusse a fare gravi riflessioni sul passato, che