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curato, non volli fosse messo allo spedale, sapendo pur troppo in qual modo vi si trattino gl’infermi, ed essendomi nota l’imperizia dei medici. L’ho fatto dunque portare a casa da’ miei schiavi, i quali, in una stanza a parte dove lo feci mettere, stanno ora cambiandolo, per mio ordine, di biancheria, e lo servono come potrebbero servire me medesimo. —

«Tormenta si scosse a quel discorso del gioielliere, e provò un’emozione della quale non sapeva darsi ragione. — Conducetemi,» disse al sindaco, «nella stanza di quell’ammalato: bramo vederlo.» Il sindaco ve la condusse, e mentre vi si recava, la madre di Ganem disse a Forza de’ Cuori: — Ah, figliuola! per quanto sia miserabile quello straniero infermo, vostro fratello, se è ancora in vita, non trovasi forse in condizione migliore. —

«Giunta la favorita del califfo nella camera dove trovavasi il malato, si accostò al letto sul quale gli schiavi del sindaco lo avevano deposto, e vide un giovine, cogli occhi chiusi, il volto pallido, sfigurato, e tutto coperto di lagrime. L’osserva ella attentamente: il cuore le palpita, crede di riconoscere Ganem, ma tosto diffida de’ propri occhi. Se trova nell’oggetto che rimira qualche lineamento del suo salvatore, le pareva d’altronde tanto diverso, che non osa immaginare esser egli in persona che le si offre alla vista. Non potendo tuttavia resistere alla brama di chiarirsene: — Ganem,» gli disse con voce tremante, «siete voi ch’io veggo?» A tali parole, si fermò per par agio al giovane di rispondere, ma scorgendo ch’egli vi pareva insensibile: — Ah! Ganem,» ripigliò ella, «non sei tu al quale io parlo. Il mio pensiero, tutto pieno della tua immagine, prestava a questo straniero una fallace somiglianza. Il figlio di Abu Aibu, per quanto malato esser potesse, intenderebbe la voce di Tormenta.» A quel nome, Ganem (era proprio il